Cosa ci resta di Ayrton Senna da Silva a 20 anni da quel crudele Primo maggio imolese inondato di sole e di margherite? Una tristezza vaga, il languore per qualcosa che si è perso e non tornerà più, perché troppo è cambiato da allora. Senna è tante cose. Senna è una grandissima responsabilità per chi ne scrive: ogni dettaglio della sua vita è stato raccontato e romanzato, eppure continua a stringere la bocca dello stomaco di così tanti appassionati. Anche dopo due generazioni di piloti più vincenti di lui, ma incapaci di scaldare il cuore come lui. Senna è un’idea, un luogo dello spirito che si raggiunge pronunciando un bisillabo aperto e dove si torna in certe occasioni speciali della giornata, o della vita.
Senna è, prima di tutto, un volto. Questo ci resta davvero di lui, più dei tre Mondiali, dei 41 Gran Premi vinti e delle 65 pole collezionate in carriera. L’espressione tormentata di chi è alla costante e febbrile ricerca di un appagamento che, lui lo sapeva, non sarebbe mai arrivato. Lo sguardo deciso di chi non ti lascerà mai un metro per passare. Occhi come uno scanner per capire subito di che pasta sei fatto, campione o comprimario, cedevole o veloce. La brama era il suo segreto, l’elemento filosofale che catalizzava le altre qualità che fanno un pilota di Formula 1: «Non ho idoli. Ammiro il lavoro, la dedizione e la competenza». Alla competizione Senna dedicò tutto se stesso, con intensità insuperabile.
Forse per questo Senna aveva sempre quell’espressione corrucciata, perennemente in cerca della perfezione. Impossibile conquistarne lo sguardo e l’attenzione a lungo: era sempre altrove, lontano, perso in chissà quale valutazione. Intervistarlo era difficilissimo. Con quella parlata dolce e l’intonazione da adolescente, svelava pensieri profondi e portava la conversazione dove voleva lui: «Gli chiedevi di Prost e parlava delle gomme, gli chiedevi delle gomme e parlava di Dio», raccontava in redazione l’inviato sportivo di un quotidiano. Era imprendibile anche sul taccuino: quanti piloti sono rimasti, così? Sui circuiti però la bocca si apriva a stento al sorriso, le labbra si piegavano nell’insoddisfazione, perché il giro migliore, la vittoria più bella, è sempre quella che deve ancora arrivare. Nessun pilota di Formula 1 ha più avuto un viso così intenso e magnetico. Tantomeno Michael Schumacher, il campione che ha saputo riunire il Circus mediatico attorno alla sua camera d’ospedale, ma che Ayrton detestava al punto di arrivare a prenderlo per il bavero ai box dopo uno sgarbo in pista. Perché con lui non si scherzava. Dicevano che in pista danzasse come un lottatore di capoeira, colpiva deciso e leggero solleticando le leggi della fisica. Spericolato, coraggioso? Ron Dennis non perdeva mai l’occasione di ricordare l’intelligenza dell’uomo, prima della determinazione e della smisurata carica agonistica del campione.
L’insoddisfazione gliela si poteva leggere negli occhi già sul podio del Gran Premio di Montecarlo nel 1984, al suo primo anno in Formula 1, dopo aver acceso sotto la pioggia battente la rivalità di una vita con Alain Prost. Esitava, impacciato, con la coppetta del secondo posto in mano davanti a Ranieri di Monaco e a Carolina, prima che fosse sbrigativamente invitato a lasciare il palco al vincitore. Nell’allontanarsi si lasciò sfuggire un sorriso di felicità lunga come una curva fatta in pieno. Si vedeva che là sopra avrebbe voluto esserci lui. Voleva quanto gli spettava, tutto e subito. Avrebbe atteso un anno per averlo (Estoril, 1985).
Fuori dall’abitacolo di una Formula 1, Senna emanava un misto di carisma, dolcezza e determinazione che sapeva di umana contraddizione. Forse perché la sua fu una ricerca impossibile della gioia. Le donne e i soldi non gli erano mai mancati, non era per quello che correva. Era la perfezione che inseguiva. «Non saprete mai cosa prova un pilota quando vince una corsa. Il casco nasconde sentimenti che non possono essere compresi». Sfilato quel casco verde e oro, vent’anni dopo vediamo che il nome associato al volto si è trasformato in un brand sfruttato da 45 aziende diverse su oltre 200 prodotti e capace di generare sette milioni di dollari all’anno, in buona parte devoluti alla Fondazione che si batte per la scolarizzazione dei bambini brasiliani più svantaggiati. Senna continua a essere l’icona della classe senza tempo sulle pagine pubblicitarie dei marchi di moda e sulle copertine delle riviste maschili. Nemmeno a James Hunt, la rockstar della Formula 1 congelata nel mito e celebrata dal film “Rush”, è riuscito tanto. Era bello a modo suo Senna, e dannato dalla voglia di stare là davanti. Quando l’elettronica invase la Formula 1, fu capace di interpretare la figura del pilota scientifico senza cedere alla macchina, rivendicando il predominio del cuore. In tempi in cui l’onnipresenza delle pubbliche relazioni non aveva ancora chiuso la bocca ai piloti, con il professor Prost animò uno degli ultimi grandi duelli all’ultima staccata della Formula 1, prima che i sorpassi si spostassero dalle curve ai box. Gilles Villeneuve diventò mito vincendo appena sei Gran Premi e oggi per chi ha meno di 40 anni resta un nome, o poco più. Invece Senna ebbe la fortuna di affermarsi mentre la televisione s’impadroniva della Formula 1. La sua vita è stata un reality brillante e gli appassionati lo adorarono subito, anche se non era italiano e guidava la Ferrari come Michele Alboreto.
Se n’è andato a 34 anni senza un livido, Senna. Eternamente giovane e vincente. Il suo feretro lasciò Bologna tra due ali di applausi e atterrò in una San Paolo inconsolabile, rotta dai singhiozzi. Sulla sua lapide è scritto: “Niente può separarmi dall’amore di Dio”. E nemmeno da quello, grandissimo, di chi l’ha visto correre.
http://www.quattroruote.it/news/eventi/2014/04/30/ayrton_senna_da_silva_il_viso_triste_di_un_vincente.html
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